22. INTERROGATION


I nostri inseguitori sembrano scomparsi.
-Credi se ne siano andati?-
Mi domanda Doc guardando impaurito fuori dalla porta.
-Non penso, probabilmente sanno bene cosa si rifugia dietro a questa porta, gli basterà aspettare che usciamo-
Indico con un cenno l’uscio su cui sono appoggiato, che porta dentro al cuore dell’edificio.
-Cosa facciamo?-
Mi alzo e osservo la stanza in cui ci siamo riparati: doveva essere una reception, perché sono presenti molte sedie e un lungo tavolo, su cui troneggia un computer annerito.
-Aiutami a spostare questo tavolo per bloccare l’ingresso, aspetteremo che cali il buio e cercheremo di passare-
Bloccata la porta contro i predoni,  Doc spalma una generosa quantità di repellente intorno a quella interna, così le creature non si accorgeranno di noi una volta sveglie.
-Qualche ora prima del tramonto, cerchiamo di dormire-   

I primi sintomi della tortura non si fecero attendere a lungo, complice la stanchezza. Il primo fu Sandoval, l’unico che non aveva seguito un addestramento militare. Il suo parlottare sommesso, dettato dalle allucinazioni, rappresentava un tappeto sonoro indistinto, quasi una litania.
-Rudolf, parlami, dimmi come stai-
Cercò di intervenire Mac, ma una scarica a basso potenziale venne convogliata nel pavimento della cella, punendolo.
-Ogni tentativo di comunicare tra voi verrà punito-
Apostrofò una voce metallica, proveniente da un punto indistinto del soffitto.

-Sveglia Doc, possiamo andare-
Si alza barcollante, intontito dal sonno. Insieme spostiamo, in silenzio, la scrivania e apriamo lentamente la porta.
La luna è coperta dalle nuvole e ne filtra solo pochissima luce, quel tanto che basta per vedere i contorni degli oggetti vicini.
Prima di uscire ci impregniamo nuovamente i vestiti con la sostanza.
Per evitare di perderci decido che cammineremo mano nella mano, procedendo paralleli alla strada, ma discosti quel tanto che basta per trovare riparo tra gli alberi.
Il movimento è lento e attento, fino a quando un ramo, troppo basso e troppo scuro per essere visto, mi fa inciampare. Nella caduta tiro giù anche Doc, il quale emette un urlo gutturale per la sorpresa.
Dalla parte opposta della strada parte una corta raffica, che si perde nella notte.
Il Divoratore che ha sparato, probabilmente a causa del nervosismo, ora si starà sicuramente maledicendo, avendo rivelato la sua posizione.
Faccio per rialzarmi, ma la mano di Doc mi blocca, così porto l’orecchio a pochi centimetri dal suo viso.
-Aspetta e vedrai-
Pochi istanti dopo un ululato agghiacciante echeggia dall’edificio-tana e un forte rumore di passi, simile al galoppare di cavalli, si dirige verso il nascondiglio del cecchino. Le lunghe raffiche di colpi servono solo a rimandare di attimi la sua morte, sottolineata da un urlo e dal caratteristico rumore dei denti che masticano carne.     

Berved aveva passato l’esame di “detenzione ed evasione” a pieni voti, ai tempi del battaglione, ma ora non capiva come mai la sua testa stesse per esplodere. Ogni piccolo sussurro di Sandoval gli trapanava il cervello e, se lui stesso provava ad articolare qualche parola, non le sentiva. Da quanto tempo li avevano catturati? Era come se la sua cella lo avesse annientato.
La voce metallica gli strappò un grido acuto.
-Allontanarsi dalle porte, allontanarsi dalle porte-
Quando tutti eseguirono l’ordine, entrarono nel blocco celle tre lupi grigi, armati con una potente torcia dalla luce azzurrognola. Si fermarono di fronte a Mac e gliela puntarono in faccia, per accecarlo, mentre disattivavano il campo elettrico della porta.

Subito dopo l’attacco delle creature abbiamo corso e corso fino a quando i polmoni hanno retto e le gambe non sono andate in fiamme. Probabilmente grazie alla vita che aveva vissuto, Doc aveva una forma fisica invidiabile.
-Dovremmo essere arrivati ormai-
Dico con voce rotta dai lunghi respiri.
-Credo manchi ancora un chilometro, ma sono esausto-
-Sforziamoci di camminare fino a là, almeno poi potremo andarcene!-
Tiro su Doc e, sorreggendoci ai tronchi degli alberi infestanti, ci dirigiamo verso la nostra unica speranza.

Lo stanzino degli interrogatori era luminoso come un laboratorio scientifico, con due tecnici in camice bianco che armeggiavano intorno ad apparecchiature e un lettino chirurgico. Fecero distendere Mac e assicurarono gli arti con resistenti cinghie di cuoio.
Neanche vide arrivare lo schiaffo e la gomitata nello stomaco: i suoi occhi faticavano ad abituarsi a tutta quella luce.
-Tu devi essere Mac, giusto?-
Una macchia indistinta gli parlava. Un altro schiaffo, questa volta con un guanto rinforzato, che gli fece sanguinare il labbro.
-Sia chiaro fin da subito: io faccio le domande e tu rispondi. Chiaro?-
Un altro colpo, stavolta diretto al fianco, appena sotto le fluttuanti. Il dolore stava collaborando per fargli tornare la vista.
-Ricominciamo, tu sei Mac?
Appena prima del colpo poté vedere chi lo percuoteva.
-Generale! Sì, sono Mac-
Strenw si fermò con il braccio già caricato sopra la testa, ma non lo ritrasse, lasciandolo come monito.
-Fai parte di qualche reparto?-
-Negativo, siamo mercenari-
C’era da immaginarselo, pensò il Generale, con le corporazioni commerciali imperanti era impossibile che un’azione militare di così ridotta importanza venisse autorizzata. Ormai tutto veniva svolto dai mercenari.
-Se sei un mercenario avrai un padrone, chi è?-
-Non conosco il suo nome-
La mano calò, ma non lo colpì. Il generale si girò e fece un cenno ad un tecnico.
Una scarica elettrica venne convogliata attraverso le cinghie.
Mentre il Generale usciva, Mac era in preda alle convulsioni.   

21. SENSORY DEPRIVATION


-Finalmente ci incontriamo, Tenente.-
Berved era inginocchiato, faccia al muro, come i suoi compagni. Le armi erano state confiscate e giacevano impilate in un angolo. Cercò di alzare la testa, per vedere in faccia il suo interlocutore, ma un calcio nelle reni lo fece desistere.
-Le avevo detto di stare fermo, ma lasci che mi presenti: sono il Generale Frederik Strenw, Lupi Grigi-
Al suono delle ultime parole il gruppo di aguzzini emise un forte verso, simile ad un abbaio.
-Non ti conosco!-
Disse sfrontato Berved, passando insolente al “tu” e ricevendo un altro calcio.
-Credevo di parlare con ufficiale…mi sbagliavo?-
Un altro calcio obbligò Berved a rispondere in maniera rispettosa.
-Cosa volete da noi?-
Urlò Biz, richiamando l’attenzione del militare dietro di lui, che lo afferrò per il collo e lo trascinò indietro. Altri due gli misero uno straccio sulla bocca e un sacco di tessuto in testa, poi venne spinto nuovamente in posizione.
Il Generale alzò il tono della voce, minaccioso:
-Se non vi è chiaro, signori, se parlerete senza essere stati interpellati verrete puniti, con il vostro compagno sono stato benevolo, ma vi avverto, al prossimo mozzerò un dito! L’indice!-
Minacciare un mercenario o un soldato di recidergli di netto l’indice, utilizzato per tirare il grilletto, è un’efficace promessa.

La quinta trappola fece crollare parte del solaio in fondo al corridoio. Guardo Doc mentre si alza e corre verso il laboratorio.
-Cosa fai? Cosa impedirà a quel mostro di squartarci?-
Siamo dentro e, chino su un pannello di strumenti, alza un braccio e mi indica un angolo della stanza, in cui sono accatastati dei piccoli contenitori cilindrici.
Mi avvicino ad osservarli, non trovando nessuna etichetta o informazione utile sul contenuto.
-Questa è una sintetizzazione della secrezione delle piante del museo. Io la uso quando devo uscire all’aperto per tenerli lontani-
Si gira a guardare Sally. Mi sembra di vedere nei suoi occhi della malinconia. Quasi subito ritorna lucido come sempre e inizia a spruzzarmi addosso il composto mieloso.
Raccolgo un erogatore e mi metto al lavoro su di lui.
-Quanto tempo abbiamo?-
-Tra venti secondi è programmato il rilascio del liquido, poi prevedo un minuto di stasi dovuta al risveglio, ma sbrighiamoci, non vorrei sbagliarmi!-

Berved prese in mano la situazione, doveva cambiare strategia.
-Le assicuro che nessuno dei miei uomini le mancherà ulteriormente di rispetto. Dovranno risponderne direttamente a me, e non mi limiterò al dito indice.-
-Apprezzo l’impegno Tenente.-
-Se mi è concessa una domanda-
-Prego, la faccia pure. Dopo dovrà rispondere a molte domande, quindi gliene concedo una.-
-Ha detto “finalmente ci incontriamo”? Come mai?-
-È dalla dz (dropzone) che monitoriamo i vostri movimenti. Ammetto di aver provato quasi compassione quando vi siete infilati in una tana di quei mostri, ma ogni aspettativa è stata disattesa: siete sopravvissuti!-
-E perché ci avete fatto entrare nel complesso?-
-Non abbiamo sistemi di sorveglianza in ogni angolo, vi avevamo temporaneamente persi. Ma vi abbiamo ritrovati…-
Ride malefico e il gruppo lo imita.
-Ora basta con le domande, portateli nel blocco detentivo 3-

Quando il contenitore rilascia il liquido lo fa violentemente, inondando il pavimento del laboratorio con litri di gel. Doc quasi cade investito dall’onda alta trenta centimetri che gli colpisce le caviglie.
-Andiamo, sbrigati-
Incito Doc a raccogliere le sue cose e a fare strada nel corridoio. La visibilità è bassa a causa del fumo dovuto all’ultima esplosione, avvenuta al termine del corridoio. Un’alta cortina di fiamme sta impegnando i Divoratori, le cui urla si ergono sopra agli scoppiettii del fuoco. Corriamo dalla parte opposta, fino ad un armadio di derivazione, dietro il cui coperchio si cela un passaggio. Una volta entrati Doc posiziona un grosso cubo di materiale plastico vicino all’ingresso, tendendo un filo trasparente.
-Un’altra trappola?-
-Sì, ma spera che non capiscano da dove siamo fuggiti, c’è abbastanza esplosivo da far crollare tutto!-  

Il blocco detentivo era un vero e proprio carcere con un corridoio centrale su cui si aprivano piccole porte, niente sbarre. Vennero spinti ognuno in una cella singola, lunga poco meno di un metro e mezzo e alta altrettanto. Poi i campi di forza di chiusura vennero attivati e una barriera di luce rossa apparve, come per magia, tra gli stipiti.
-Benvenuti nella vostra nuova casa, signori miei-
Proruppe una voce da un altoparlante nel soffitto di ogni cella.
-I metodi di tortura sono stati aboliti da tempo, nel mondo civilizzato, ma questo è il mio mondo e ne posso fare ciò che voglio. Per questo proverete ciò che un tempo chiamavano “deprivazione sensoriale”. Dopo questa cura implorerete di potermi raccontare tutto quello che sapete-
La calma con cui il Generale declinò queste parole fecero venire i sudori freddi alla maggior parte degli uomini della squadra. Erano pochi quelli che non avevano mai sentito parlare, o addirittura provato sulla pelle, cosa fosse quella tecnica. Nel ventesimo secolo molti usavano delle terapie simili per curare alcuni disturbi, ma in seguito vennero abbandonate a causa delle controindicazioni psicologiche.

Il condotto di fuga doveva essere lungo almeno cinque chilometri, perché arrivati in fondo abbiamo entrambi il fiato corto e siamo grondanti di sudore, forse anche a causa dell’altissima percentuale di umidità presente.
-Vicolo cieco?-
Chiedo preoccupato vedendo la pesante grata d’acciaio.
-No, tranquillo-
Mi conforta Doc, mentre tira fuori una lunga chiave dalla tracolla.
Fuori il sole ha lasciato spazio ad un cielo terso e tra le stelle si possono facilmente identificare, dall’altissima luminosità, le stazioni spaziali delle maggiori superpotenze commerciali.
Rimango quasi incantato nel guardare quello spettacolo. Ecco un altro splendore di cui gli abitanti delle megalopoli non possono giovare, grazie a tutto l’inquinamento luminoso che generano con quei maledetti cartelloni pubblicitari.
-Riposiamoci un attimo, mangia qualcosa, ci aspetta una lunga marcia.-
Mi allunga una barretta energetica e una razione di acqua, che ingurgito in pochi minuti.

Mac, memore dell’addestramento S.E.R.E. (Survival, Evasion, Resistance and Escape), iniziò subito a cercare un modo per non distaccarsi dalla realtà. Sapeva che prima o dopo li avrebbero spogliati di tutto ciò che avevano e li avrebbero vestiti con tute senza disegni. Per ora aveva ancora l’orologio e iniziò ad osservarlo e a scandire insieme a lui il passare del tempo.

Marciamo ormai da diverse ore, alternandoci alla testa, così da permettere a entrambi di allentare un po’ la tensione, quando Doc mi ferma con un leggere suono della bocca. Mi congelo, timoroso. Lentamente mi si avvicina e mi sussurra:
-Stiamo per rasentare un edificio delle Anime, vedi quel palazzo basso e lungo?-
Mi indica quello che doveva essere un complesso per uffici, alto tre piani e lungo almeno trecento metri.
Le finestre, talmente scure che sembrano voler fagocitare il buio della notte, gli danno un aspetto minaccioso, quasi fossero una fila interminabile di occhi vuoti.  
-Mantieni un passo costante, senza fare rumore e, nel caso uscisse qualche abitante ricorda che siamo coperti di repellente. Continua a muoverti e non fare nessun movimento brusco. Intesi?-
Ci mettiamo quasi mezz’ora a passare l’edifico, stando attenti a non calpestare i cocci dei vetri delle automobili abbandonate lì davanti. Arrivati al termine del lungo muro, camminiamo ancora per una cinquantina di metri e ci fermiamo, sfiniti.
-Aspetta, aspetta, sono stanchissimo. Ci possiamo riposare un attimo?-
-Quanto dista il capanno di cui mi parlavi, Doc? –
-Ancora una decina di chilometri-
-Riposiamoci allora, appena un attimo però, non vorrei mai che quelle creature si accorgessero di noi-
Non riesco quasi a finire la frase che una lunga raffica di fucile d’assalto squarcia la notte, alzando spruzzi di terra e sudiciume tutto attorno a noi. Ci alziamo veloci e corriamo a più non posso nella direzione opposta agli spari: l’edificio!